Emigrare sì, ma perchè? – Si viene e si va (due) #2

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Terza puntata della seconda stagione di Si viene e si va e iniziamo con qualche numero: gli iscritti all’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) sono aumentati in dieci anni del 49,3%. Al 1 gennaio 2015 oltre 4,6 milioni di nostri connazionali risultano vivere fuori dall’Italia. Nel solo 2014, a fronte di 33000 nuovi ingressi, oltre 100000 italiani sono fuggiti (dati Fondazione Migrantes). Dunque, la tendenza ad emigrare persiste ed è in continuo aumento: l’emorragia è notevole, nonostante i tentativi di fare delle leggi ControEsodo (perché ovviamente non ne bastava una) che per di più si sono autocontraddette, creando come al solito confusione e disagi.

A monte di tutto ciò, la domanda vera è: perché si emigra? Distinguerei due macrocategorie: l’emigrazione controllata e l’emigrazione volontaria/forzata.

La prima (emigrazione controllata) è come una derapata in un rally: si esce fuori dalla traiettoria standard, la macchina va di traverso, ma tutto viene gestito tramite volante e pedali. Questa è stata la mia esperienza personale e di molte persone che conosco: il datore di lavoro propone un’esperienza all’estero, presso sedi distaccate nelle più svariate parti del mondo, con un obiettivo temporale ben definito ed eventualmente prorogabile. Si inserisce dunque all’interno di un percorso di crescita professionale in prospettiva, non necessariamente già delineato nei  dettagli, ma comunque con un obiettivo di medio-lungo termine. Nel mio caso, il processo delle 7C è cominciato circa un anno prima: le prime due (complexity e clarity) si focalizzavano in particolare sulla criticità paese. Prima di allora, non avevo mai contemplato di andare a vivere in Cina e non conoscevo nulla della cultura, della tradizione e della lingua. Parlando con colleghi che lavoravano e vivevano a Suzhou, ho cominciato a diradare le nubi e i dubbi; si trattava a quel punto di far crescere la confidence e questa si è costruita solo quando ero sicuro che anche la mia famiglia, in particolare mia moglie,  si è convinta della scelta. Le altre 4 C si sono concretizzate nel tempo durante la permanenza in Cina. Pur non conoscendo lo schema delle 7C, posso dire che per me il percorso decisionale e motivazionale è stato coerente con quello indicato.

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Nel secondo caso, il ventaglio di situazioni può essere ampio. Il caso più semplice è quello di persone che autonomamente decidono di cambiare vita (emigrazione volontaria). “L’Italia mi sta stretta”, “Non sopporto più questo Paese”, “Mi faccio un mazzo tremendo per non guadagnare nulla”: una frustrazione non più contenibile che richiede un cambio di vita.

Diversa, invece, la situazione in cui si deve partire perché non si ha scelta (emigrazione forzata). Si fugge da un lavoro mal retribuito o che non dà soddisfazioni, da opportunità che non ci sono perché il mondo lavorativo italiano è vecchio e malato. Ma a volte si fugge perché il lavoro non c’è, con una famiglia da mantenere e un mutuo che scatta inesorabile ogni mese. La storia di Bia (che riprendo da un suo commento proprio alla puntata #0) è emblematica:

Nel mio caso, dopo 10 anni da giornalista, stipendio invidiabile, posizione sicura, mi sono ritrovata senza più un’occupazione stabile. Ci si rimette in gioco, in questo caso il cambiamento è obbligato: si vagliano proposte, si valutano alternative. Nel mio caso mi sono rimessa sui libri: certificazioni varie, tirocini e master. A 36 anni, che non sono 50, ma non sono nemmeno 25. E, poi, la svolta non c’è stata. La precarietà insiste e si fa più pesante. Per me il cambiamento ora è una necessità di vita, per un presente sereno e per un futuro possibile. Per la mia “metà”, invece, non è così. Lui vive tutt’altra situazione. Lui il cambiamento lo rifiuta.

In questo caso, il processo delle 7C funziona parzialmente: Bia non può far altro che cambiare, che rimodulare se stessa verso alternative magari prima neanche considerate, ma non può fare a meno di confrontarsi con la realtà, che prevede prima di tutto la sua famiglia. Nel suo caso emigrare non sembra possibile. La resistenza al cambiamento (del marito, nel caso di Bia) è insita in ciascuno di noi: abbattere i muri della propria zona di comfort è quanto di più innaturale ci sia. A volte solo l’idea di cambiare lavoro all’interno della stessa città o della stessa provincia ci sembra un ostacolo insormontabile, se poi si tratta di ragionare sul fare le valigie e spostarsi in un altro stato, intervengono i più agguerriti meccanismi di difesa. Proprio Bia, nel suo post Dopo due anni, un lavor (ett)o, ci fa capire bene che cosa spesso ci sia dietro la volontà di mollare l’Italia. Un Paese il cui mondo del lavoro è antiquato: personalmente, condivido moltissimo le parole del ministro Poletti, che dice:

Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l’ora di lavoro, ma misurare l’apporto dell’opera. L’ora di lavoro è un attrezzo vecchio.

Tutto vero, salvo poi essere in grado di costruire delle politiche che siano sostenibili e cambiare la mentalità di chi fa impresa: ognuno deve essere retribuito per il valore che apporta, per le capacità e le competenze che mette in gioco e per i risultati che ottiene. Sempre Bia, ci racconta nel suo post Cerchi lavoro? Preparati all’arroganza (altrui) che si è sentita rispondere “qui si lavora per il nome, paghiamo dieci euro lordi all’ora”.

Ecco perché si emigra. Perché molte professioni, nella maggior parte dei casi legate a Internet e all’home office, non si possono inquadrare all’interno dei primitivi contratti nazionali, ma nello stesso tempo hanno una dignità pari a quella di un metalmeccanico o di un chimico e quindi devono essere tutelate alla stregua di un lavoro tradizionale.

Per rimanere in tema di denaro: la convinzione più grande è che si emigri perché si viene ricoperti d’oro. Questo è un luogo comune ancora una volta legato ad un pensiero vecchio: una volta le grandi aziende che aprivano filiali o stabilimenti all’estero inviavano i propri dirigenti, che venivano retribuiti con stipendi faraonici. Oggi non è più così. Chi emigra, spesso lo fa alla ricerca di un lavoro, senza alcun contratto in mano e con la consapevolezza di lasciare un pezzo di se stessi. Giulia lo esprime benissimo nel suo post Quanto è difficile lasciare:

Ieri ho lasciato un lavoro sicuro e ben pagato. L’ho fatto dicendo la verità e attirandomi la curiosità di chi non concepisce che decidere di cambiarlo è la cosa più naturale e liberatoria.

Lasciare la propria famiglia, il proprio paese, le proprie abitudini, la propria lingua, il proprio comfort è sempre complesso e doloroso: con buona pace delle 7C.


Approfondimenti:

La puntata #0 di Si viene e si va (due) >> le 7C e la gestione del cambiamento

Tutte le puntate di Si viene e si va >> Stagione uno e due


25 risposte a "Emigrare sì, ma perchè? – Si viene e si va (due) #2"

    1. Ciao, è vero, discorso complesso. Lo è per chi deve prendere la decisione, ma spesso per chi ci sta intorno potrebbe sembrare banale e facile. Come ho detto, molti mi dicevano “ma sì, tanto ti caricano di soldi!”. Poveri illusi…
      Ricordo bene il tuo post, lo avevo letto. Dunque la tua situazione mi sembra convergere verso un’emigrazione volontaria o sbaglio?

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      1. Ormai si, perlomeno da quello che vedo. C’è una percentuale di gente che sale in Belgio per stage o periodi di lavoro nelle istituzioni europee, ma la maggior parte delle persone sale volontariamente, a volte anche del tutto impreparata, sperando di trovare una situazione migliore.

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        1. Quindi diciamo che c’è un misto tra emigrazione volontaria e emigrazione forzata. Quando dici “del tutto impreparata” ti riferisci all’aspetto strettamente lavorativo (intanto vado e faccio quello che trovo) oppure al fatto che arrivano in Belgio senza sapere che cosa li aspetti?

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          1. No, diciamo che c’è una percentuale di gente che arriva su perché magari ha l’amico del cugino della nipote che gli ha raccontato che qui è il paese del bengodi. E questi arrivano in due, con svariati figli, senza sapere una parola di francese o olandese e pretendono, sui gruppi Facebook, che la gente gli trovi/gli dia da lavorare perché in fondo siamo tutti italiani. Purtroppo qui la legge è diversa rispetto all’Italia. Qui se non hai un contratto di lavoro non ti danno la carta d’identità, e senza quella non hai diritto a nulla.

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            1. Siamo proprio italiani, la nostra mentalità è sempre quella del “in qualche modo si fa”: peccato che se in Italia possiamo ancora cavarcela in qualche modo, all’estero prendiamo solo grandissime nasate!
              Grazie mille per il tuo contributo!

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  1. Dalla fine del 2014 all’AIRE risulta anche il mio nome, quello della mia compagna e pure quello del pupetto nato nel Fuckin’ Nordeuropa.

    Sono 6 anni che sono partito e di cose ne sono cambiate tante.

    All’inizio sono venuto qui per lavorare con una società italiana, attraverso la partita IVA italiana – come tipo l’80% dei miei colleghi del circo mediatico – con mostruosi ritardi di pagamento fino ad arrivare a 5 mesi di arretrati. Lo stipendio era decisamente migliore di quello di Roma, dove lavoravo a giornate e quello che guadagnavo coincideva con l’affitto.

    Qui a Bruxelles lo stipendio minimo per legge è di 1200€. E con 700€ da solo puoi permetterti un bell’appartamento. Capisci che le prospettive di vita sono mooolto diverse.

    Oggi la società ha aperto una succursale belga e finalmente mi ha assunto con contratto belga, prendo un po’ meno ma ora c’è uno Stato che mi tutela, come non succede in Italia.

    Ma ora mi inizia a pesare essere lontano da casa. Perché casa rimane sempre l’Italia e il pensiero che mio figlio cresca mangiando cozze e patatine un po’ mi preoccupa. Dall’altro lato vederlo crescere in una cultura multietnica e senza dicriminazione mi rende più felice.

    Sono abbastanza lacerato. Qui c’è un tempo di merda ma se sei gay o nero nessuno lo nota. Lì c’è il sole, la famiglia, le radici, gli spaghetti, ma anche tanta ignoranza e tanto razzismo.

    Cos’è meglio per lui?
    Cos’è meglio per me?
    Perché non riesco a diventare ricco?

    Vorrei tornare in Italia. E prendere tutti a gran calci nel culo perché stanno affondando casa mia e il futuro di un loro figlio costretto suo malgrado a nascere dove piove e si mangiano cozze e patatine.

    Scusa lo sfogo, ma sto a Molenbeek a cerca’ Salah con Sky e avevo un’oretta di buco…

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    1. Ragazzi, Ceskoz sul mio blog!!! Probabilmente molti come te tornerebbero volentieri in Italia per gli stessi aspetti che dici tu: il clima, la famiglia, le radici (e poi, cozze e patatine…mmmm). Poi, pensano a cosa ne sarebbe del loro lavoro (precariato, pagamenti non effettuati, per dirne un paio) e allora preferiscono ingurgitare le cozze con le patatine. Vedo che in Belgio c’è una grossa comunità, anche vomit0r666 è lì.
      Ma se stai inseguendo Salah, non è che ti trovi in Siria? Ma poi, Salah il giocatore della Roma?

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  2. Grazie mille di questo post, delle tue riflessioni e delle citazioni 🙂
    Io ora sono giunta a una sola soluzione: credere nei miracoli e sperarci. Per un’atea è davvero dura, ma non mi rimane altro che sforzarmi di essere positiva per immaginare un futuro, nonostante la realtà mi smentisca. (Ovviamente mi riferisco all’aspetto professionale della mia vita e il miracolo è trovare un lavoro che sia “giusto”, idoneo alle mie aspirazioni/titoli e a un mercato sano).

    Grazie ancora, è sempre un piacere leggere i tuoi post 🙂

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    1. Grazie a te Bia. Da tempo avevo i tuoi post pronti per essere utilizzati, perchè sono la descrizione concreta di ciò che non funziona in Italia. E quando sento la Sig.ra Camusso intervenire subito a difesa del vecchiume, mi vengono i brividi e mi sale la carogna. Mi piacerebbe sapere per le lei qual è il suo concetto di lavoro giusto e di mercato sano. Anzi, no, non voglio saperlo.
      Ti auguro veramente che la situazione cambi (basta che poi continui a raccontarci qualcosa sul blog!).
      A presto!

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      1. Ah, la Camusso…!!! Colei che difende chi un lavoro ce l’ha e pure pagato. Misteri.
        Assolutamente sì, continuerò a raccontare le vicissitudini (anche se, ammetto, ultimamente ho poche energie… le spendo tutte a cercare di essere positiva 😀 ).
        A prestissimo e grazie!

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        1. Meglio che non esprima alcun commento su Camusso e su tutti gli altri sindacalisti, perchè rischio una querela. E non perchè ritenga inutili i sindacati (anzi), ma perchè ritengo che hanno i piedi piantati negli anni Settanta. Qualcuno attivi la loro sveglia cerebrale e spieghi loro che nel frattempo il mondo si è evoluto!

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  3. Grazie per la citazione Stefano. La mia emigrazione, come già sai, è stata volontarissima e dettata da motivi poco forzati a livello lavorativo, ma sì a livello sentimentale. Mi posso ritenere fortunata? Forse sì, almeno non è stata un’emigrazione forzata, che è sempre quella che lascia un po’ più di strascichi di nostalgia, secondo me, che all’estero si fanno sentire forte. Comunque eccomi, parte dei 4,6 milioni di italiani nelle liste dell’AIRE. Proprio ieri, rimodellando un po’ il blog, ho messo a punto la pagina “Un’altra italiana all’estero” che raccoglie i post della categoria “Emigrare”: http://www.trentanniequalcosa.com/buona-ragione-per-emigrare/

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    1. Tra le varie definizioni che riporti, quella che associo a te è quella di persona coraggiosa. Lo si legge bene nel tuo bellissimo blog.
      L’emigrazione forzata associa alla difficoltà dovuta alla necessitá la tipica nostalgia da expat. Quindi un binomio malefico, che non auguro a nessuno. Anche se so che la realtá presenta molti di questi casi…

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  4. Hai proprio ragione quando dici che non esistono politiche sostenibili in grado di tutelare chi lavora nel mondo delle nuove professioni del web. Il problema, però, è che, tante volte, sono i clienti stessi che non capiscono quanto impegno c’è dietro alcune prestazioni, figuriamoci chi ci dovrebbe governare!
    Sul reinventarsi sono perfettamente d’accordo con Bia: dopo anni di studio ti accorgi che quello che hai appreso non è ancora abbastanza; alla fine sei un “rifiuto sociale” e questo, oltre a non essere accettabile dal punto di vista economico ti fa sentire perennemente in colpa per aver sbagliato strada professionale. Emigrare, alle volte, sembra l’unica soluzione per venire valorizzati come si deve. Ogni tanto ci penso, ma per il momento lascio correre.
    Un saluto e grazie per questo bell’articolo.
    Sara

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    1. Ciao Sara, sono d’accordo con te, i clienti sottovalutano le nuove professioni. Qui torniamo però al punto per il quale se a capo di Confindustria ci finisce sempre qualcuno del modo di fare impresa tradizionale, nulla potrà mai cambiare. Oggi chi deve guidare deve essere dentro la novità, soprattutto sapendo che la novità di oggi è già “scaduta” domani! Tutto questo non è facile da gestire, lo ammetto: siamo all’interno di un’economia sempre più fluida, ma non siamo ancora abituati a pensare che si possa lavorare tranquillamente da casa. Se sei home office, ti pago di meno, perchè lavori da casa! Finchè non entriamo dentro l’aspetto delle competenze e del valore aggiunto, non ne usciremo.
      Grazie a te per la tua condivisione.

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