Un biglietto di solo ritorno (per ora) – Si viene e si va #5

emigrazione, italiani nel mondo

Ingegnere e ricercatore, blogger, appassionato conoscitore di cinema, puro talento pugliese: Pietro è il protagonista della quinta puntata della rubrica Si viene e si va e soprattutto è il primo a parlarci non dall’estero, ma dall’Italia, condividendo con noi l’esperienza del ritorno.

Caro Pietro, sono felice di averti mio ospite in questa rubrica.

Mi chiamo Pietro, ho 37 anni, 19 dei quali (i primi) trascorsi tra i fumi dell’Italsider e gli ulivi ultrasecolari della Murgia. Dopo il diploma di perito elettronico, salii sulla freccia adriatica, direzione Politecnico di Torino: tutti pensavano che mi sarei iscritto ad ingegneria elettronica ed invece li spiazzai tuffandomi nel mondo dell’ingegneria chimica.
Mi affacciai ancora coi pantaloni corti in una metropoli che, a quei tempi, aveva un’immagine di città altra ed altera. I primi due anni trascorsero abbastanza lisci, se non fosse per gli esami di matematica nei quali inanellai una serie di voti bassi a fronte di notti passate a calcolare integrali e derivate invece di darmi al sollazzo. I tre anni successivi, durante i quali finalmente cominciai a masticare chimica e ingegneria pura, si districarono tra studio, notti in bianco (stavolta a divertirmi!) e tanto cinema. La laurea giunse nel maggio del 2002: non stufo di studiare, decisi di proseguire con i tre anni del dottorato in Scienza dei Materiali. Col senno di poi, credo sarebbe stato meglio fermarsi alla laurea: infatti mi trascinai con molta svogliatezza fino alla conclusione del percorso nel febbraio del 2006. Eravamo nel bel mezzo delle Olimpiadi invernali: Torino non era più la grigia città industriale e centro culturale alternativo che avevo conosciuto al mio arrivo in Piemonte, ma si era trasformata in una città da classica cartolina italian style. Tanti ristoranti, pizzerie, dehors, con il risultato che se si voleva fare il cameriere qualche possibilità c’era, mentre posti di lavoro, specie se di stampo tecnico, si trovavano con il lanternino. Ad ogni modo, nonostante le solite lamentele del meridionale al Nord che non ha il mare a vista e le mozzarelle ogni giorno a tavola, a Torino mi trovavo bene, anche se la sola idea di lavorare a Trofarello mi metteva i brividi. Morale della favola: restai fino ad aprile 2010 a fare un post-doc al Politecnico. Mi dedicai a ricerche nel campo della catalisi e della combustione: non credo vincerò mai un Nobel per questo, ma al tempo stesso credo di aver fatto degnamente un lavoro per il quale, purtroppo, non c’erano grosse prospettive. Conscio di ciò e conscio di aver già speso troppi anni da ricercatore sottopagato, decisi di fare un altro post-doc, questa volta all’estero. Tramite un mio vecchio professore di Ingegneria chimica che aveva seguito una parte delle mie ricerche (uno dei pochi che rimarranno nel mio cuore e nei miei pensieri per avermi realmente insegnato qualcosa), ero entrato in contatto con un docente che si occupava di pirolisi di biomasse di seconda generazione in Canada, in particolare a London Ontario, città universitaria sulla direttrice Detroit-Toronto. Con una lettera di lavoro di quest’ultimo, mi presentai all’ambasciata canadese a Roma: alle dieci del mattino varcavo la soglia dell’edificio, dopo mezz’ora avevo un permesso di lavoro firmato. Era maggio del 2010: cominciai a capire che qualcosa nella mia vita stava cambiando per sempre e che nulla sarebbe stato più come prima.

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Pietro e la moglie Marta

E dunque, eccoci in Canada. È stata la tua prima esperienza all’estero?

Non posso dire di non essere mai stato all’estero prima del Canada, però un conto è viaggiare da turista, un conto è viverci. Da turista, avevo girato parecchio tra Europa e Argentina; inoltre nel 2009 avevo conosciuto in Italia una ragazza spagnola (ora mia moglie): per motivi amorosi avevo dunque frequentato la penisola iberica. Insieme a lei, ci avventurammo dunque in Canada, dove io atterrai con il mio permesso lavorativo e lei ottenne un visto come “common law partner”: da notare che in Italia non eravamo riconosciuti come coppia di fatto.
Restai impressionato dall’ordine, dalla gentilezza e dalla buona educazione canadesi: avevo già riscontrato queste ultime due caratteristiche in Argentina e in Spagna, in dosi molto maggiori rispetto all’Italia, mentre sull’ordine i canadesi sono i primi. Ogni pratica burocratica affrontata nelle prime due settimane (codice fiscale, iscrizione alla sanità pubblica, richiesta della patente, contratto di affitto con l’Università che è tra l’altro proprietaria di svariati appartamenti per i suoi dipendenti) si svolgeva in non più di mezz’ora e nella totale cordialità ed efficienza dell’impiegato nostro interlocutore. L’inizio, dunque, è stato decisamente confortante: inoltre, arrivando in tarda primavera, il clima era accogliente e questo ci ha permesso di intraprendere subito una buona vita sociale, il cui frutto è stata una folta cerchia di conoscenti. Fattore, quest’ultimo, importantissimo per chi si trasferisce all’estero. Dopo sei mesi abbiamo poi scoperto il rigido clima canadese e questo, forse, è l’elemento più destabilizzante per chi emigra in questo paese, soprattutto per noi coppia iberico-pugliese!

Si sa che negli USA, a fianco di una giusta meritocrazia, c’è anche un’ossessione per il lavoro. Lo stesso si può dire del Canada?

Direi di no. Il lavoro è visto come qualcosa di importante, uno dei tanti tasselli che compongono la vita dei singoli e delle comunità, ma non è una “religione civile” come negli States. In Canada esiste un welfare che forse in Italia suonerebbe un po’strano, per non dire discriminatorio e sessista: infatti per un nucleo familiare alimentato da un duplice stipendio (marito e moglie) le tasse sono molto più alte, al punto che quasi uno stipendio su due va allo Stato. È come se il fatto di lavorare in due venga interpretato come una scelta di non allargare la famiglia: riducendo la tassazione ai nuclei monostipendio, indirettamente si incita a promuovere l’aspetto familiare. Come detto, in Italia si scatenerebbero i movimenti femministi, senza alcun dubbio.
Anche nel lavoro, le cose si affrontano in maniera molto ordinata e senza isterismi da performance (cosa che noto soprattutto in Italia). In ambienti di lavoro dove si interagisce in team, si cerca sempre una soluzione che medi i vari punti di vista ed opinioni. Se da un lato questo porta a lavorare in un ambiente parzialmente rilassato e collaborativo, anche se attento sempre alle scadenze e al rispetto di ciò che si pattuisce, dall’altra però la continua ricerca di una mediazione porta a soluzioni che non sempre risultano essere le migliori. Dunque alla indiscutibile efficienza non sempre corrisponde altrettanta efficacia.

Hai avuto difficoltá ad ambientarti? se sì, perchè?

In Canada insultare una persona per la sua religione o provenienza geografica è un reato per il quale si rischia grosso, al pari del reato di evasione fiscale: dunque la severità delle leggi e della loro applicazione aiuta l’integrazione culturale. In due anni, posso dire di non avere mai assistito ad episodi di discriminazione. Tutto ciò non vuol dire che i canadesi siano dei grandi amiconi: anche se sempre ben disposti e cordiali nei confronti del prossimo, il nostro primo anno è stato condiviso con connazionali che avevano fatto la nostra stessa scelta ed altri nostri coetanei di diverse estrazioni geografiche (dalla Cina al Cile, per esempio). Solo dal secondo anno, è stato possibile creare amicizie anche con persone canadesi. Le amicizie nate in Canada, annoverabili sia tra gli expats sia tra gli indigeni canadesi, rientrano senza dubbio tra le più care di sempre, anche se vissute purtroppo solo per un anno o due.
È innegabile comunque che il primo vero fattore che aiuta nell’integrazione sia il fattore linguistico: prima di emigrare, credo sia necessario perfezionare al meglio la lingua del paese dove si andrà a risiedere. Questo infatti permette una trasversalità assoluta nel lavoro come nella socialità e la totale integrazione si raggiunge solo attraverso l’autonomia e la libertà di potersi esprimere come lo si fa nella propria lingua madre. Questo l’ho notato sulla mia pelle, come sulla pelle di molti conoscenti (argentini, per esempio) che si sono trasferiti in Italia: pur avendo buone posizioni lavorative, stentavano ad ambientarsi nel nostro paese proprio perché non totalmente padroni della nostra lingua.

Raccontaci qualche episodio strano o buffo che hai visto o vissuto.

Difficile trovarne qualcuno: purtroppo in un posto così ordinato e garbato, la mancanza di brio e di imprevedibilità è all’ordine del giorno. Però il clima e la natura ci hanno offerto spunti interessanti. Veder cadere giù un metro e mezzo di neve in tre giorni, rischiando di rimanere paralizzati in città e isolati dal mondo, è qualcosa che ha rotto il nostro “caos calmo”. Un mio collega, in quel week end, si era recato al lavoro il sabato mattina, per recuperare delle ore. Entrò la mattina alle 9. Alle 16 si accorse che la sua auto era totalmente immersa nella neve: trovandosi in un edificio immerso nella campagna canadese, non potè far altro che chiamare i soccorsi. La polizia andò a prelevarlo in elicottero con tanto di scaletta: una scena degna di Point Break. Come detto prima, vivere questo clima è stato uno dei punti più complicati: parecchie volte mia moglie si sentiva osservata, quasi come un’aliena, perchè ai primi tepori in aprile (in Canada il tepore corrisponde ad una temperatura intorno ai 5°C!) indossava ancora una giacca a vento piuttosto invernale, tra l’incredulità soprattutto degli anziani e l’ilarità dei bambini.
Poichè London Ontario è completamente immersa nella foresta, sovente ci capitava di vedere colonne di auto ferme ad aspettare che gruppi di oche attraversassero la strada, il tutto nella più totale calma e tranquillità degli automobilisti. Per non parlare degli orsetti lavatori, che varie volte sono entrati in casa dal balcone della cucina, con l’obiettivo di rubare il cibo al nostro gatto, scatenando ovviamente la sua rabbia. Insomma, questa città vive in simbiosi con gli animali e in generale con la natura.

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Il grande freddo

A maggio 2012, lasciate il Canada. Dove vi trasferite e perché?

Nella primavera del 2012, entrai in contatto con un’azienda italiana che si occupa di trasformazioni di biomasse di seconda generazione. Mi si prospettava il ritorno in Italia, previo periodo di sei mesi in un loro centro di ricerca in Ohio. L’idea del ritorno in Italia ci allettava. Una buona prospettiva di lavoro, la nostalgia degli amici (in particolare per me), la possibilità di poter metter su famiglia in uno dei due paesi d’origine e, non da ultimo, soprattutto per mia moglie, l’aspetto linguistico: tutto questo mi ha fatto accettare l’offerta. L’esperienza in Ohio è stata entusiasmante. È stato il periodo che mi ha consentito di migliorare il mio livello di inglese, quasi a livello di madrelingua. Poi, ho avuto la fortuna di confrontarmi con un’altra mentalità di lavoro (quella più vicina al concetto anglosassone e molto meno canadese); non da ultimo, ho potuto vivere la campagna presidenziale che ha portato alla rielezione di Obama. L’Ohio era considerato uno degli stati chiave, dato perennemente in bilico ed è stato interessante notare che le differenze tra le due visioni della politica e dell’economia portate avanti dai due candidati erano abbastanza nette, a differenza dell’Europa dove spesso candidati e partiti si somigliano, seppur di schieramenti diversi. Ho potuto verificare una mia tesi che sostengo da tempo: stati di determinate dimensioni e densità demografiche non possono fare a meno dell’industria. Credere che si possa vivere di solo turismo, come in Italia, è una castroneria pazzesca. Obama ha convinto gli americani che si doveva reindustrializzare e mi riferisco al reinnesto dell’industria dell’auto nel Michigan e, come conseguenza, a quella dello pneumatico nell’Ohio.

E infine il ritorno in quell’Italia, che per l’appunto non crede più nell’industria…

In Italia siamo atterrati a fine 2012. Al di là del lavoro, ho dovuto constatare che tante cose intorno a noi erano cambiate, così come tante altre erano invece rimaste tristemente identiche, nel bene e soprattutto nel male. Col senno di poi, mi sono reso conto che quella nostalgia che tanto ha influito sulla scelta del ritorno è stata una trappola. La lontananza porta a filtrare tutto il passato, lasciando l’evidenza solo delle cose belle che ci mancano: ma la realtà è ben diversa, perchè ci si scontra per esempio con la vita dei propri amici che è cambiata per tanti motivi, belli o brutti che siano, e con l’amara consapevolezza che nulla tornerà più come prima. Il ritorno rappresenta la scelta, spesso inconsapevole, di interrompere il percorso di crescita umana ed esistenziale che si era avviato, scelta che cozza con i motivi razionali, indubbiamente positivi, alla base della decisione di tornare in Italia.

Per la prima volta, la domanda di rito è opposta: ti manca la vita all’estero?

Devo dire che in particolare il Canada da uno a dieci mi manca… undici! È un paese che offre una prospettiva di vita futura, non solo per me, ma soprattutto per i miei figli. Ho conosciuto miei coetanei, figli o nipoti di italiani emigrati in Canada negli anni Sessanta, che si sentono canadesi al 100%, parlano dalle 3 alle 4 lingue (il che ovviamente apre le porte del mondo intero, potendo così scegliere dove lavorare) ed essendosi pienamente integrati, alla stregua dei loro familiari, amano sia la patria che ha dato loro i natali, sia la patria da cui provengono. Le possibilità di lavoro unite alle condizioni sociali ed ambientali che il Canada offre sono inimmaginabili per un trentenne italiano. In prospettiva, dunque, vedo tanto benessere per questa terra, mentre solo incognite per l’Italia e in generale per l’Europa e questo mi rammarica, come dicevo prima, soprattutto per i miei figli.
A livello personale, La cosa che mi manca di più è la buona educazione e il rispetto del prossimo. Il confronto tra i livelli canadesi e quelli italiani è impietoso. Per tutti questi motivi nel mio futuro vedo l’estero: non a breve, ma sicuramente tra qualche anno, anche se purtroppo non vedo il Canada, quel treno mi sembra perso.

Stando alla tua esperienza, come oggi bisognerebbe scegliere l’università? Sono cambiati i criteri rispetto ad una volta?

Il presidente della commissione di diploma all’ITIS, dopo un brillante esame di maturità, alla fine delle prove orali mi chiese: “Voi (il lei in alcune lande suona troppo femminile, meglio virare su un più virile e romano “voi”) andrete sicuramente all’università”. Io gli risposi: “Si, farò ingegneria”. Lui: “Sicuramente elettronica”. “No, chimica”. Il professore, tra l’allucinato e lo stizzito, mi disse (testuali parole): “Ma allora che cazzo avete studiato a fare elettronica per 5 anni?!”. Ovviamente non replicai, andandomene via con la supponenza dei ventenni che non devono mai dare spiegazioni. Risultato: mi mutilò il mio sacrosanto 60/60. Una delle tante esperienze di incontro con idioti, di cui la mia vita di studente è stata costellata. Correva l’anno 1996. Gli anni universitari, tra corso di laurea e dottorato, non sono stati da meno in quanto ad idioti che “docentano”: un professore, nel 1999, mentre spiegava come produrre gli acciai, disse che in Italia la produzione degli acciai è inutile e che le acciaierie sono affare per Cina e India. Tutto questo per dire che cosa? L’università andrebbe sempre scelta in base alle proprie inclinazioni personali e non in base alle indicazioni o finti suggerimenti propinati da quotidiani o settimanali (stilati su chissà quali pressioni). Spesso si legge che chi fa ingegneria troverà sicuramente lavoro: chi sceglie in base a questo parametro ha praticamente decretato che l’infelicità e la frustrazione saranno le protagoniste dei suoi prossimi 5-7 anni e molto probabilmente di tutta la sua vita professionale, qualora decidesse di restare nel solco tracciato dal suo corso di studi.

Perché un giovane, oggi, dovrebbe fare un’esperienza all’estero? E qual è il momento giusto per farla?

La situazione attuale (non solo economica, l’economia è solo una variabile dipendente dalla cultura di un popolo) già sta imponendo a tanti giovani di emigrare all’estero. Se guardiamo alle statistiche degli ultimi dieci anni, i numeri raccontano di un esodo inesorabile pari a quelli già avuti in altre epoche. Ovviamente per i nostri governanti (così come in altre epoche storiche), meglio avere qualche milione di emigranti piuttosto che gente incacchiata in patria. Al di là della boutade politica, consiglio a chi comincia ora l’università di iscriversi subito all’estero: vedo questa scelta di emigrazione come una scelta che suona anche un po’rivoluzionaria. Credo che il periodo della propria vita compreso tra i 19 e i 25 anni sia il più bello e sono anche gli anni in cui, se ci si iscrive all’università, si costruiscono le basi solide per il futuro, creando la connessione con il mondo del lavoro, ed anche le amicizie più strette e fraterne. Fare l’università a Toronto, Londra, Parigi o Barcellona offre indubbiamente una marcia in più per il futuro in termini di opportunità, conoscenze ed apertura mentale rispetto ad un qualsiasi ateneo italiano. Per cui apritevi al mondo!


8 risposte a "Un biglietto di solo ritorno (per ora) – Si viene e si va #5"

    1. In effetti è così. Probabilmente l’idea di donna manager in Canada è un po’ poco sentita ancora, mentre in Italia pensare ad una donna rinchiusa tra le mura domestiche fa venire l’orticaria. In questo senso, quindi, una filosofia del genere in Italia non verrebbe accettata.

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  1. Se guardiamo il Canada con gli occhi dell’Italia, tante cose appaiono come un curioso controsenso (non solo l’argomento tirato in ballo dai commenti). Se si guarda il Canada, con gli occhi dei canadesi, si pensa al Canada prima di tutto come ad uno stato (non ancora una nazione), dove ognuno, donna e uomo, deve rinunciare a qualcosa della propria realizzazione professionale per dare qualcosa alla propria comunitá e allo stato, per migliorare la vita di tutti. La scelta di dare sgravi importanti ai monoreddito e di tassare in maniera molto forte le famiglie con più entrate (soprattutto se sopra determinate soglie) è una cosa che in Canada non fa una piega (e comporta di riflesso che molte donne trascurino per alcuni anni la propria professione e carriera, e data le possibilità del mondo lavorativo, anche una facilitá di rientro per chi volesse ritornare). La stessa cosa avviene per la tassazione dei superstipendi di grandi manager e tanti altri aspetti, che potrebbero far pensare al Canada come ad uno stato paternalista (per non dire semisocialista, stile quasi scandinavo).
    Date le enormi ricchezze di questo paese, una redistribuzione del reddito molto spinta, unita ad una classe politica lungimirante nei riguardi delle future generazioni, rende questo posto uno stato foriero di diritti in Italia oramai inimmaginabili, ed irraggiungibili.
    Questo da un punto di vista politico-sociale.
    Da un punto di vista storico-simbolico, Canada e Italia sono abbastanza agli antipodi. L’Italia dall’unitá ad oggi ha visto intere generazioni e fette di popolazione escluse da ricchezza e lavoro. In Canada l’esatto opposto. In Italia, soprattutto per chi dalla ricchezza e dal lavoro ha solo avuto esclusione, il lavoro è una rivalsa storica e simbolica prima che sociale. Per il Canada, storicamente la disparitá tra offerta e domanda di lavoro (sempre a favore del primo, ancor oggi nonostante una crisi mondiale) non fa altro che far considerare questo aspetto come importante ma non determinante per il proprio benessere e la propria realizzazione umana.

    Sono cose molto complicate e delicate da spiegare, molto più semplici da razionalizzare (non dico capire) se si prende la valigia e si decide di andare a vivere in quei posti.

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    1. Caro Pietro, mi sento di ringraziarti moltissimo per il tuo contributo, sia nell’intervista, sia anche a livello di commenti. Credo che la difficoltà di questa rubrica sia quella di condensare in circa 2500-3000 parole esperienze che, come tu stesso dici, si fa fatica a raccontare.
      Nello stesso tempo, l’obiettivo è far conoscere altri mondi a chi non ha avuto la fortuna di prendere la valigia oppure a chi è lì, di fronte allo schermo del pc, del tablet o dello smartphone, alla ricerca di quel germoglio di speranza, che dia la spinta a dare una svolta.
      Per cui grazie ancora!

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