Una designer al servizio dell’educazione – Si viene e si va #3

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Il 2015 inizia con il botto: in particolare, la terza puntata di Si viene e si va ci porta in California, a Oakland e la protagonista è Michela. Buona lettura.

Michela, è tempo di svelarti ai lettori.

Mi chiamo Michela. Sono nata vicino a Milano, dove ho vissuto fino all’età di sei anni, quando mi sono trasferita, al seguito della mia famiglia, a Garessio, in provincia di Cuneo. In effetti già da piccola i miei genitori mi hanno sempre spinta a viaggiare e io per natura non ho mai detto di no. Dopo la maturità classica, conseguita nell’amato Liceo di Mondovì, mi sono iscritta al Corso di Laurea in Disegno Industriale del Politecnico di Milano, ancora con il vecchio ordinamento (nessuna laurea breve o magistrale, per intenderci). Oggi, vivo a Oakland, in California, dove mi sono trasferita sette anni fa.

Michela, Si viene e si va
Michela, Oakland

Dal Liceo Classico al Disegno Industriale: idee poco chiare o normale amministrazione? E soprattutto: come oggi bisognerebbe scegliere l’università?

Non è facile dare una risposta. In tutta onestà, io credo di aver sbagliato, nel senso che la mia scelta non è stata dettata né da una vocazione forte, né da un orientamento al futuro. Ti dirò di più, non ti nascondo che la scelta del corso di laurea è stata parzialmente dettata dal luogo: avrei voluto fare Architettura e, pur essendoci a Mondovì la sede distaccata del Politecnico di Torino, non volevo rimanere lì. Ho quindi scelto la facoltà più simile, che allora esisteva solo a Milano. Molto presto mi sono resa conto di non essere una progettista, ma piuttosto una organizational freak (organizzatrice compulsiva, ndr): non ero tra quelli che facevano le notti prima degli esami di progettazione perché non amavo fare le cose all’ultimo minuto e in fretta. I risultati più alti li avevo infatti negli esami in cui si doveva studiare, mentre negli esami progettuali puntavo a mantenere la media.

Quindi ti sei pentita della scelta?

Direi di no. Col senno di poi, posso dire di aver fatto la scelta giusta: se avessi studiato legge, difficilmente avrei potuto vivere qui, mentre la mia disciplina mi ha aperto le porte dell’estero. Essendo io uno spirito viaggiatore, è andata bene così.

Prima degli Stati Uniti, avevi avuto altre esperienze all’estero?

Tramite il progetto Erasmus ho avuto la possibilità di trascorrere quasi due anni in Gran Bretagna, precisamente a Egham, un paesino nel Surrey a due passi da Windsor e a un’oretta di treno dal centro di Londra, dove ho frequentato l’università: qui ho conseguito il Bachelor of Science in Industrial Design. Lì ho toccato con mano il mondo del campus, della meccatronica e della prototipazione. Dal punto di vista del mio percorso di studi è stato davvero molto diverso rispetto a quello che conoscevo a Milano: lì ho veramente capito che non avrei fatto l’industrial designer.

Arriviamo dunque a oggi: qual è stato il canale che ti ha aperto le porte degli Stati Uniti?

Il percorso è stato lungo. Ho avuto la fortuna di laurearmi nel momento in cui il Corso di Laurea in Disegno Industriale del Politecnico di Milano, ai tempi sotto la Facoltà di Architettura, si stava trasformando nella Facoltà del Design: c’era bisogno di nuove teste che per di più conoscessero bene l’inglese (allora era piuttosto raro). Io avevo appena conseguito il Bachelor alla Brunel University e sono stata reclutata nell’ufficio Relazioni Internazionali della Facoltà, dove ho affiancato la direttrice nella creazione di progetti di scambio internazionale e nella gestione di progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea. Dopo circa un anno, mi sono spostata al coordinamento del Master in Design Strategico, vincendo un assegno di ricerca: qui ho avuto la fortuna di lavorare con un gruppo di persone da cui ho imparato moltissimo, dal punto di vista didattico, della progettazione, e della ricerca nel campo del design. Terminato l’assegno, tuttavia, ho seguito il cuore e ho deciso di tornare al paesello, dove per poco più di un anno ho lavorato al Consorzio Turistico Alpi del Mare, parte del G.A.L. Mongioie. Mi sono resa conto molto presto che non faceva per me e così ho colto al volo l’opportunità offertami da una vecchia collega di affiancarla all’Interaction Design Institute di Ivrea (IDII), scuola internazionale di Design dove di nuovo la conoscenza della lingua e la capacità di fare tante cose era basilare. Mi sono così trasferita ad Ivrea e quando la scuola è stata incorporata nella Domus Academy di Milano ho traslocato nel capoluogo lombardo. Arriviamo agli inizi del 2008: il mio fidanzato di allora, nonché mio attuale marito, ex studente di IDII e americano, ha avuto un’opportunità lavorativa in Silicon Valley. Come Interaction Designer, aveva la strada tracciata verso la Bay Area (così si chiama la zona intorno a San Francisco). Io ho spinto perché provassimo. “Un paio d’anni”, ci siamo detti: ne sono passati quasi sette.

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Lake Merritt

Ed eccoci finalmente oltre oceano. Onestamente non avevo mai sentito parlare di Oakland fino ad oggi: che città è?

Siamo nella zona di San Francisco, un’area che culturalmente è ancora figlia degli anni Settanta: la gente pensa innanzitutto al proprio benessere, non ha mai fretta, ti sorride persino in coda al supermercato! Prima di arrivare a Oakland, abbiamo vissuto in altre quattro città, sempre nella Bay Area. Ora credo che, almeno per un po’, ci stabilizzeremo qui. Oakland è un posto particolare, che sta vivendo un momento di crescita non indifferente. È nota – non lo nascondo –  per essere una delle città più violente negli Stati Uniti. In alcune zone ci sono le famose bande, che non giocano a tirarsi dei modesti petardini: qui, se si sentono botti, escono dalle canne di pistola. Per fortuna, ci sono alcune zone assolutamente tranquille, altre ancora, come quella dove vivo io, sono in fase di cambiamento, sul modello dei Vicoli di Genova di una decina di anni fa, oppure, più recentemente, San Salvario a Torino o la Bovisa di Milano con il boom del nuovo polo del Politecnico. Oakland sta a San Francisco come Brooklyn sta a New York: la “città” (per intenderci, da queste parti “la città” è solo San Francisco, anche se ha solo 200000 abitanti in più di Oakland e addirittura 300000 in meno di San Josè) sta diventando troppo cara e, nonostante gli stipendi elevati, comprare o affittare casa comincia ad essere proibitivo, per cui sempre più persone si stanno trasferendo ad est del Bay Bridge, dove puoi permetterti la villetta con il giardino. La scena culinaria è degna di nota e i coffee shop, che qui vengono usati come uffici itineranti, offrono caffè ottimi, musica indie e alcuni vendono persino i fiori. È una città di quasi 500000 anime ricca di parchi (e non intendo solo i giardinetti, intendo boschi in cui si fanno camminate di chilometri), tramonti splendidi, vista sul Bay Bridge e Golden Gate Bridge. È un posto in cui gli ingegneri informatici abitano con gli artisti, in cui la storia convive con il futuro; un posto in cui si vive con il kit per il terremoto, perchè può arrivare da un momento all’altro, ma nello stesso tempo viviamo serenamente: nel mio quartiere ogni venerdì pomeriggio ci vediamo con i vicini per l’happy hour e fare giocare i bambini, oppure abbiamo una “baby sitting coop”, così, se vogliamo uscire una sera con il nostro compagno/a, non dobbiamo pagare una baby sitter.

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Graffiti su un palazzo a Oakland

Per fortuna, quindi, oltre alla violenza, Oakland sembra offrire molto di più. A livello lavorativo, ci sono opportunità? In particolare, tu di cosa ti occupi?

La Bay Area ha sentito la crisi del 2008 ma siamo già in piena ripresa: il lavoro nel campo high-tech non è mai davvero venuto a mancare. Lavoro per The Learning Accelerator, un’azienda no-profit nel campo della education technology, con il ruolo di Program Manager. L’azienda è virtuale, quindi lavoriamo tutti da casa! Abbiamo la missione di accelerare l’implementazione del cosiddetto blended learning (apprendimento misto, ndr) all’interno dei distretti scolastici in USA. In particolare, la nostra attenzione è centrata su tre aspetti: apprendimento personalizzato, progressione sulla base delle competenze ed uso efficace della tecnologia per permettere di applicare i primi due su larga scala. Il mio ruolo è quello di supportare i miei colleghi con compiti amministrativi e di gestione di progetti ed eventi, in particolare per quanto riguarda gli aspetti logistici (dalla definizione di workplan e timeline, alla gestione economica di alcuni progetti). Lavorare da casa è un grosso vantaggio, perché, avendo due bimbi piccoli, mi permette di avere molta flessibilità e spesso di poter lavorare anche dall’Italia, dove cerco di trascorrere un paio di mesi ogni estate. Inoltre, una cosa con cui sono diventata familiare e che non conoscevo in Italia è il concetto che “se vivi bene lavori bene” e quindi il CEO ha progettato l’organizzazione avendo in mente che i suoi dipendenti prima di tutto devono essere felici ed avere un eccellente equilibrio vita-lavoro. Spesso quando ci parliamo (rigorosamente al telefono), la prima domanda che mi pone è “ti prendi cura di te stessa?”: mi pare che questo la dica lunga sul tipo di ambiente e cultura lavorativi.

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lavorare al coffee shop

Hai avuto difficoltá ad ambientarti? se sì, perchè?

Sì e no. Sono super socievole e la lingua non è mai stata un problema. Tuttavia, appena arrivata non potevo lavorare per via del visto e il lavoro è un buon mezzo per conoscere gente. Poi c’è stato il crack del 2008 e molte aziende hanno deciso di congelare le assunzioni. Finalmente nel 2009 ho trovato lavoro ma nel frattempo ero rimasta incinta e, quando è nato il primo bimbo nel 2010, ho deciso di non tornare subito a lavorare. Diciotto mesi dopo è arrivato il secondo bimbo. Ho dunque ripreso a lavorare nell’autunno del 2012. Se l’inizio è stato un po’ duro, ora posso dire di avere una vasta rete di amicizie ed una ancora più vasta di conoscenze. Dai vicini di casa che mi portano la zuppa se sono malata, a quelli che posso aiutare io se ne hanno bisogno, dal gruppo di amici italiani sparsi qua e là nella zona, ai colleghi.

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un po’di spezie

La domanda di rito è sempre la stessa: ti manca l’Italia?

No. Mi mancano i miei affetti, ma non l’Italia: sono infatti molto legata a mia mamma e alle mie sorelle, per cui ammetto che non so se riuscirei a vivere qui se venisse a mancare la possibilità di trascorrere i due mesi estivi in Italia. È indiscutibile, però, che ogni volta che vado in Italia mi pare che ci sia un po’di tristezza. Capisco che la situazione al momento non sia facile e proprio per questo non so se potrei tornare a vivere lì adesso.

Ti viene in mente qualche episodio che hai visto o vissuto e che dimostra la differenza con l’Italia?

Se attraversi la strada con il pancione di 8 mesi spingendo un passeggino, qui si fermano e quasi scendono dall’auto per aiutarti, mentre in Italia hai sempre la sensazione che giocano a stirarti per “fare più punti”. Qui le code nei negozi o agli sportelli si fanno. Mi si potrebbe obiettare che sono luoghi comuni, ma purtroppo sono stereotipi che non esistono a caso. Il concetto del tempo: qui raramente c’è un ritardo. Una volta a Mondovì avevo un appuntamento dal dottore alle 16 e sono passata alle 17.30. Il commento al mio disappunto è stato “qui si dedicano ai pazienti in tutto e per tutto”. E io che ho aspettato ore non ero un paziente degno di attenzione? Ancora in Italia: chiamo per parlare con un dottore, ma mi viene detto che non è disponibile, perché in riunione. Chiedo quando finisca la riunione e la risposta è: non si sa. Qui negli USA le riunioni hanno un inizio e una fine. In generale, qui le cose funzionano. A volte sono troppo rigidi, ma esistono parametri entro i quali ci si aspettano determinate cose. In Italia c’è troppa flessibilità, le regole sono fatte per essere scavalcate, mentre qui per essere rispettate. Da italiana trapiantata, non ha prezzo.

Come vedi l’Italia dall’estero?

Triste, e un po’ cafona.

Me l’aspettavo… quindi, se ora ti chiedo se nel tuo futuro vedi estero o Italia, immagino tu non abbia alcun dubbio…

Estero. Mi piacerebbe spostarmi in Europa per minimizzare lo sforzo e le distanze, ma non potrei tornare a vivere in Italia in questo momento.

Per chiudere, facciamo una cosa all’americana: hai di fronte a te una platea di giovani a cui stai raccontando la tua esperienza. Perché dovrebbero partire? E qual è il momento giusto?

Perché è giusto decidere dove vivere anziché pensare che ci sia imposto dal nostro luogo di nascita. Quindi non si tratta solo dell’andare all’estero, ma ancora prima porsi la domanda. L’università è un buon momento perché è protetto da un biglietto di ritorno e dai genitori che ci aiutano economicamente (questo è un plus degli italiani). Conosco molti che hanno fatto come me progetti di scambio all’università e poi sono tornati; altri invece si sono spostati per lavoro e sono rimasti qui: la maggior parte delle persone che ho conosciuto qui mi raccontano di essere venuti pensando di stare un paio di anni, fare un’esperienza che potesse essere rivendibile in Italia per avere stipendi più alti. Il che è sostanzialmente impossibile: le aziende in Italia non sono disposte a equiparare stipendi che, in particolare nella zona di San Francisco, sono quasi un sogno per l’Italia. In più (e questo è il vero problema), la verità con cui ci si scontra è che alcune delle cose che si fanno qui (vedi appunto il mio settore o l’High Tech) in Italia non esistono neppure.


7 risposte a "Una designer al servizio dell’educazione – Si viene e si va #3"

  1. La mitica – praticamente mitologica – Michela! Che sorpresa ritrovarla (ritrovarti) così, nelle righe di un blog. Ho letto con grande interesse il racconto di questa specialissima traiettoria di vita.

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    1. Ciao Ivo, questa rubrica è interessante anche perchè mi permette di percorrere le “traiettorie di vita” (bella immagine, complimenti) anche di persone che ho conosciuto molti anni fa. Michela è una di queste.
      Oltre a ciò, sento di ringraziare tantissimo Michela per il tempo che mi ha dedicato, sapendo che non è facile riuscire a districarsi tra lavoro e famiglia. Una bella testimonianza da parte di una ragazza che ha fatto veramente un bel percorso. E quindi è giusto dare a lei la giusta vetrina.

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    1. Grazie a te del passaggio. Ritengo che l’esperienza sia un’altra di quelle che vanno lette e capite. Un percorso particolare, che però fa capire come la volontà e la tenacia siano tutto.
      Ciao!

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    1. Sono contento di riuscire a trasmettere il valore di queste esperienze belle e arricchenti (spero) per chi legge. Sono esperienze che parlano da sè, per cui in questo caso brava Michela!

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